Quotidiano
di Lecce del 19-20.XI.1995
“Schipa, niente fiori ma opere per Lecce”
Il figlio del più grande leccese del secolo accusa e rilancia:
di Rosanna METRANGOLO
Il 16
dicembre di trent’anni fa moriva Tito Schipa. La partecipazione fu tale da far pensare che la città tenesse al
patrimonio dl cultura musicale che Schipa aveva rappresentato. Una promessa non mantenuta. Dopo trent’anni Lecce non riesce a fare molto di più di
un qualche convegno, l‘intitolazione di una piazzetta e poco altro. Persino il museo che doveva raccogliere i cimeli del grande tenore è
rimasto lettera morta. Domani al museo, organizzata dalla
Provincia in collaborazione con gli Amici della lirica e con l’Università, ci
sarà la commemorazione del trentennale della morte. «Ma non fermiamoci qui», dice il figlio Tito Schipa Junior. «La
città deve rendersi conto che ha un patrimonio da mettere a frutto e che può
diventare grossa occasione turistica e culturale. Partendo dal museo». Intanto
la città si chiede quali opere verranno messe in scena per la stagione
lirica’96. Il direttore generale, di recente
nominato dalla provincia, Claudio Pugliese, dice: «Metteremo in scena Andrea
Chenier. Per il resto è ancora tutto da decidere». Si parlava
di Traviata e di un inedito con Martinucci protagonista. «Si vedrà», insiste
Pugliese. «La cosa importante è mettere in scena allestimenti omogenei». E le
voci? «Purché siano di qualità, non importa se conosciute o no».
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Meno male che ci sono gli anniversari.
Sennò, appassionati a parte, chi si ricorderebbe di Tito Schipa, il tenore
salentino che rivoluzionò il modo di fare lirica, rinunciando ad orpelli
gestuali e ghirigori vocali? Una piazzetta, un conservatorio, un’associazione
di melomani, un concorso biennale e una tomba ornata di fiori solo il 2 novembre:
è tutto qui il tributo che la città paga al tenore che portò il nome di Lecce
nel mondo. E qualche commemorazione. Domani pomeriggio si celebrerà il trentennale
della morte (con un’anticipazione di qualche settimana, visto che Schipa mori
il 16 dicembre 1965). L’hanno voluto la Provincia, l’associazione Amici della
lirica e l’Università. Al museo provinciale, alle 17, Giorgio Gualerzi, Alberto
Zedda, Tito Schipa junior e Giovanni Carli Ballola parleranno della figura
umana ed artistica di Tito Schipa.
E va già bene. Tempo fa si diceva di un
mini-concerto con una sconosciuta cantante, meritevole di attenzione (giurano
i bene informati) più per il suo cognome da sposata che per le sue doti vocali.
Un’iniziativa poi abortita a vantaggio della giornata che, per la levatura dei
relatori, può essere un degno per quanto piccolo dono al grande Schipa.
«Ma per carità, basta. A che serve
continuare a parlare di quanto cantasse bene? Siamo tutti d’accordo su questo.
Ma quand’è che Lecce si deciderà a considerare Schipa un patrimonio collettivo?
Basta con le commemorazioni e gli occhi umidi di commozione», dice il figlio.
Che quindici anni fa tornò a Lecce, dopo esserci stato da bambino con il
padre. «Ci venni grazie agli Amici della lirica e misi a disposizione della
città tutto il materiale di famiglia, i miei anni di ricerche, l’amore per mio
padre. L’idea era di realizzare Il museo dei cimeli di Schipa. Con il tramite
dell’associazione, si giunse ad un accordo con il Comune. Io donavo il
materiale e non senza fatica riuscii a fare accettare la clausola che, se dopo
due anni non se ne fosse fatto niente, ne sarei rientrato in possesso. Di anni
ne passarono otto, ma del museo neppure l’ombra. E decisi di riportarmi via
costumi e tutto il resto. Si scatenò il putiferio. Il sindaco di
allora, Corvaglia, andò su tutte le furie e poco ci mancò che mi desse del
ladro. Poi concluse: si porti via quel che vuole, troveremo dell’altro. E tanto
basta a capire quanta coscienza ci sia del fenomeno Schipa».
Qualcuno sostiene che parte della
responsabilità del fallimento dell’iniziativa sia anche sua. La si accusa di
voler realizzare affari sulla pelle del leccesi.
«Lo so e, quando fu detto, ci
rimasi molto male. Tutto quel che chiedevo era la sovrintendenza del museo e
che mi pagassero il viaggio in treno e una notte in albergo una volta ogni due
mesi. Tutto qui. Il Comune mi accusò di volermi assicurare un vitalizio
strumentalizzando il nome di mio padre. È pazzesco».
Certo che questo rapporto cattivo
con la città non aiuta la causa Schipa, non le sembra?
«Il rapporto
cattivo riguarda le istituzioni, anzi il Comune o, più precisamente, la vecchia
amministrazione comunale. Non ho ancora avuto modo di incontrare i nuovi
amministratori cittadini. Per quel che riguarda la Provincia, devo dire che mi
ha sempre dato una mano per quanto poteva. Ha messo più volte a disposizione
l’orchestra, ora questa giornata di commemorazione, a dicembre la Messa da
requiem dedicata al trentennale della morte di mio padre. Al di fuori delle
istituzioni, ho un ottimo rapporto con i leccesi che mi hanno sempre riservato
grandi attestazioni d’affetto».
È proprio chiuso il discorso del museo?
Se ce ne fossero le condizioni, sarebbe disposto a donare I costumi e tutto
l’altro materiale?
«Per me non ci sono problemi, purché si
facciano le cose seriamente. Una novità concreta c’è e viene, ancora una
volta, dagli amici della lirica. L’associazione intende trasformarsi in
fondazione e riprendere Il discorso del museo».
C’era una volta un pianoforte. Che fine ha
fatto?
«Me lo chiedo anch’io. Il pianoforte di mio
padre, costruito appositamente per lui negli anni Quaranta, fu acquistato
dal Banco ambrosiano veneto e regalato. alla città di Lecce. Ma nessuno può
vederlo. Credo che sia chiuso in qualche angolo del castello di Carlo V».
Quel che occorre è un salto di qualità
nella gestione della cultura musicale in questa città. Magari proprio nel nome
di Schipa, di cui lei è l’erede. Cosa è disposto a fare?
«Sarei felice di dare il mio contributo di
idee. Credo che tutto possa partire dal museo, sol che non lo si consideri un
luogo polveroso per la raccolta di cimeli. Il museo deve diventare un laboratorio,
una fucina di iniziative, un archivio, il centro di dibattiti e manifestazioni
legate al nome di Schipa. Un esempio: esiste in Italia il problema della
conservazione dei documenti sonori e musicali. Vengono buttati via reperti
importantissimi, registrazioni delle più grandi esibizioni. Recentemente sono
stato a Catania dove ho scoperto un intero patrimonio di registrazione su filo
usato per stendere i panni. E magari su quel filo c’era l’Arlesiana che Schipa
cantò lì nel ‘52. È un problema grossissimo che investe quella che è la
concezione della storia dell’arte di questo paese. Ne ho parlato anche con
Sgarbi, il quale mi ha risposto che la riproducibilità del nastro fa perdere
allo stesso il suo carattere di unicità. E per questo sarebbe meno importante.
Si dimentica però che, fino a quando non si copia, il nastro è un’opera unica.
Perchè, nel nome di Schipa, non potrebbe partire da Lecce un’iniziativa
legislativa che miri a tutelare questo aspetto della storia dell’arte italiana?
Lecce, in fondo, ha il barocco, la cartapesta e Tito Schipa».
Beh, non esageriamo. Tanto per rimanere
nel mondo degli artisti, c’è anche Carmelo Bene.
«Per carità, Bene è un grande, ma non c’è
paragone con mio padre in quanto a successo mondiale. Per cinquant’anni Schipa
ha battuto i palcoscenici di tutto il mondo, ha provocato un enorme giro
d’affari, ha impersonato un divismo che fa impallidire Pavarotti. E in
un’epoca in cui non esisteva la cassa di risonanza dei media. Il clamore che
c’era attorno al suo nome non è paragonabile con quello che suscita il nome di
Bene. La città deve impadronirsene come di un proprio patrimonio culturale, A
livello comunale finora non è ancora accaduto».
Lecce, come sa, ha una Università Esiste
la cattedra di conservazione dei beni culturali. Ha pensato di rivolgersi ai
docenti?
«Veramente non ancora, ma lo farò in
occasione di questa venuta. Tra l'altro, oltre al materiale in possesso della
mia famiglia, ho anche quello che un collezionista leccese, che da anni viveva
a Roma e che è morto di recente, ha lasciato all’ipotetico museo di Lecce. E
si tratta di materiale importante, anche se quantitativamente limitato».