Articolo su Quotidiano di Lecce del 22.XI.1996, p. 1 e cr., p.VIII

Facciamo di Lecce la città di Schipa

di Alessandro BARBANO

 

Nei giorni scorsi, polemizzando con un politico che aveva liquidato Tito Schipa come l’idolo di suo padre, abbiamo replicato che il Maestro leccese rappresenta la memoria di un’intera comunità, quella dei padri che lo conobbero e dei tanti immemori figli. Oggi che il nome del cantante viene celebrato da un concorso per giovani talenti lirici a lui intitolato, vogliamo tornare sull’argomento per spiegare il perché di tanto accento.

            Tito Schipa non fu solo il più grande - a memoria d’uomo - tenore di grazia che la storia della Lirica co­nosca, imitato da generazioni di arti­sti che se ne contendono l’eredità. Fu soprattutto un grande innovatore, perché propose e impose un nuovo modo di cantare, fondato su due prin­cipi rivoluzionari:

1)         la totale naturalezza nell’e­missione: del suono, quel cantare co­me si parla anche quando la trama musicale dispone la voce e fiato a prove impegnative. All’artificioso «falsetto» di molti cantanti di ieri e, ahimè, di oggi, Schipa contrappone­va una riduzione naturale del volume, fondata su un eccezionale controllo della respirazione diaframmatica. Ed in questo indicava un rigore che oggi rappresenta uno dei presupposti del bagaglio tecnico di ogni cantante mo­derno;

2)         un purismo interpretativo del­la partitura che ai tempi in cui Schipa divenne una stella, gli anni 20’, era del tutto estraneo alla cultura musicale degli interpreti. Il rispetto dei tempi, l’autentica corrispondenza delle pa­role alle note così come librettista e compositore avevano inteso, la pro­nuncia di tutte le sillabe anche se col­locate su una nota acutissima o grave, l’eliminazione di quelli che in gergo teatrale si chiamano «gigionismi.», cioè interpretazioni eccessive della partitura, dirette a platealizzare l’esecuzione per strappare l’applauso: tutte queste condizioni stilistiche con Schipa diventano per la prima volta la sostanza stessa del canto.

Il lettore noterà che tra i principi rivoluzionari dell’epopea di Schipa non ho inserito la sua voce, che pure - per qualità del timbro e naturale sonorità - è stata impareggiabile: una voce straordinariamente viaggiante, dalla trama sottile ma in grado di ri­suonare in ogni angolo del teatro con la stessa intensità, un dono di natura che ha fatto del talento di Schipa un mito popolare, e che ci collega all’im­magine dell’idolo dei padri riportata dal nostro politico.

In realtà Tito Schipa fu molto di più: uomo del barocco, portò dentro la sua Lirica la lezione più autentica di uno stile di arte e di umana natura così presente dentro la cultura salen­tina. Non il barocco posticcio degli artifici, di cui è piena in ogni campo la storia del Novecento leccese, ma quello di un’originalità senza tempo che fa della grazia e della magnificen­za una sintesi perfetta, di modo che si potrebbe dire che il suo canto sta alla partitura come la luce al rosone di Santa Croce.

Ecco perché i giovani artisti di og­gi studiano Schipa come un maestro di straordinaria attualità. Ecco perché, molto più che «talento», il tenore leccese fu «genio», con tutto il carico di innovazione che l’irrompere della sua figura sulla scena ha determina­to.

Se è vero che questa consapevo­lezza è comune a tutto il mondo artistico della Lirica (e per esserne con­vinti basterebbe avere una qualche percezione della cultura musicale ol­tre i confini di Sanremo), l’amnesia collettiva che Schipa paga nella sua terra d’origine pare, più che un oltraggio all’idolo, la prova di un tragi­co vuoto del presente.

Diciotto mesi fa, adempiendo ad una sorta di imperativo morale, Quo­tidiano organizzò un forum sulla Lirica, chiamando a raccolta le espressio­ne più rappresentative della politica e dell’intellettualità cittadina. E lanciò in quella circostanza la proposta di collegare il destino di questa città alla «memoria» del grande Tito, con un progetto che fosse insieme produzio­ne di cultura e promozione di immagi­ne turistica.

Il progetto si articolava attorno allo slogan «Lecce città di Schipa» e a quattro iniziative:

1)         un festival del Belcanto, con opere del repertorio del tenore, che inglobasse l’attuale stagione lirica, proiettando il marchio Lecce-Schipa in un panorama internazionale. È significativo che la corsa al festival sia oggi obiettivo di un teatro come il San Carlo, che pure è in grado offrire ben altri spettacoli;

2)         il rilancio del concorso per gio­vani voci liriche in una dimensione mondiale e il suo collegamento con il festival attraverso la messa in scena di un’opera interamente eseguita dai vincitori del concorso, con una regia e una direzione d’orchestra d’avan­guardia;

3)         l’organizzazione di una scuola di canto di valore internazionale che spezzasse l’isolamento del nostro conservatorio, oggi mera fabbrica di insegnanti di musica per la scuola me­dia, collegandolo alle espressioni più originali della ricerca musicale euro­pea;

4)         la realizzazione di un museo dedicato a Schipa, grande occasione di contatto della città con il flusso tu­ristico, ma soprattutto autentico mo­mento di diffusione della cultura mu­sicale nel territorio, attraverso inizia­tive e programmi dl divulgazione nelle scuole, da realizzare anche con il pieno impiego delle moderne tecnolo­gie.

La proposta di Quotidiano cadde nel vuoto, in assenza di un interlocutore disposto a farsi mediatore tra l’e­vanescenza della politica culturale degli enti locali e la timidezza dei pri­vati che pure si affacciano oggi a con­dividere con il potere pubblico pro­getti e opportunità. La rilanciamo, augurandoci che una nuova sensibili­tà possa riscattare un silenzio troppo lungo e troppo ingiusto per non essere anche colpevole.