UN SOGNO RICORRENTE

            Ho un sogno ricorrente: mio padre è ritornato.

            Dopo una lunghissima assenza, simile a quelle sue lunghe

tournée quando ero bambino, ricompare a casa sorrridente e affettuoso, ma

cambiato, più vecchio, più stanco. E nel sogno, esattamente come quand'ero

bambino, vedendolo tornare ho un misto di contentezza e di disagio.

            La sua lontananza è stata lunga quel tanto che basta perché io

debba riabituarmi alla sua presenza, superare un leggero senso di estraneità.

E in un angolo della mia mente mi accorgo di essere un po' sorpreso

del fatto che non sia ancora morto. Sì, mi accorgo che durante la sua

assenza mi sono preparato all'idea, ho accettato l'idea della sua morte.

Ma non so distinguere se quest'ultima sensazione sia parte del sogno

attuale, nasca dalla mia consapevolezza della sua reale scomparsa o

esistesse già nella mia infanzia.

            Per quanto mi sforzi di separare il sogno dalla realtà, mi

rendo conto che mio padre era un ricordo, un mito dentro di me già quando

ero ragazzo, e il vederlo tornare in carne ed ossa era sempre come un

faticoso, magico, tormentato rito di resurrezione.

            Così per me la sua morte vera continua ad essere, ora come

allora, qualcosa cui mi ero preparato da sempre, un avvenimento spiacevole

ma non traumatico, ambiguo ma del tutto irrilevante rispetto alla presenza

profonda di lui.

            

            Io credo che sia così per chiunque, amando un artista, ne sia

un po' figlio nell'anima. Un artista, e in particolare l'artista che ami,

non muore. La morte non ha senso in questa dimensione, ogni poeta lo sa da

sempre. Pensare alle spoglie mortali di Mozart o di Shakespeare dà ad

ognuno di noi come l'impressione di uno scherzo di cattivo gusto. Cosa

c'entra quella carnevalata, quel povero burattino inerte, con l'oceano di

emozioni, la parola viva, il conforto eterno della sua Opera? Il mistero

della morte rivela tutta la sua assurdità quando a morire è un genio.

            Un mistero simile, altrettando imperscrutabile, è la reale

natura di ciò che l'arte suscita in noi. Ogni artista ha il suo

incomprensibile gioco di prestigio, il suo volteggio perfetto al termine

del quale ti ritrovi a chiederti:

            "Ma che è successo esattamente, come ha fatto?".

            Nel caso di Tito Schipa il segreto è ancora più ermetico,

difficile a mettere in parole. Per quanto tu l'abbia ascoltato e riascoltato

mille volte nella vita, quando sei lontano dal giradischi ti ritrovi

a pensare che quel bel signore leccese non è stato Caruso, certamente, o

Beniamino Gigli o Giacomo Lauri Volpi, e nemmeno Frank Sinatra, o Louis

Armstrong, o Carlos Gardel o Carlo Buti o Elvis Presley o Bob Dylan o Rod

Stewart, o nessuno di coloro che ebbero nelle corde vocali uno strumento

personalissimo, magistrale, e che sono diventati i capofila del loro

specifico modo di cantare. E allora ti domandi perché ascoltando Tito

Schipa tutto il resto ti è parso d'improvviso come crollare in una

dimensione ridotta, in un campo nobilissimo ma ristretto, nel relativo,

insomma, minima cosa davanti a qualcosa di assoluto.            

            Ti riavvicini al giradischi chiedendoti, per la millesima

volta, se non hai esagerato un pò. E per la millesima volta, al

distendersi di quella voce, di quella pronuncia perfetta, all'incredibile

tensione dell'arco melodico, alla capacità di essere presente e sussurrante

anche nel più astratto dei registri innaturali, ripiombi nella fascinazione.

            

            Ti viene alla mente un altro grande mistero della storia del

teatro: pensi a Amleto, a quel ragazzotto rimuginante che non si è mai

capito se sia scemo o se ci faccia, a quel mezzo uomo che non ha la

statura di Lear, non ha il fascino di Jago, la perfidia di Riccardo, la

passione di Romeo, eppure ogni volta che lo tiri fuori dalle sue pagine

torna a presentartisi come il più grande in assoluto, come il fuoriclasse,

il numero uno. Torni a chiederti perché. E concludi che chissà, la forza

titanica di Amleto sta proprio nel suo non essere nessuno dei grandi

personaggi particolari, ma nell'essere, stupidamente e definitivamente,

l'uomo. L'uomo e basta, con una qualunque storia da uomo, talvolta

appassionata, talvolta un po' meschina e straziante, talvolta drammatica,

talvolta buffa, ma necessariamente profonda per il fatto stesso di essere

lui vivo, di essere l'uomo.

            Poi il genio enorme di Shakespeare, applicato ad un uomo

qualsiasi, ha creato il capolavoro irripetibile.

            Tito Schipa ha applicato alla voce di un uomo qualsiasi

l'enormità di un'arte vocale, interpretativa e creativa, senza eguali

nella storia del canto. 

            Per noi che apparteniamo, a quell'area compresa tra il Mediterraneo

e le selve dell'Europa centrale, l'area dove la vera grande

musica è nata e ha toccato il suo culmine; per noi che abbiamo misteriosamente

ripudiato la tradizione secolare della narrazione in musica che ci

rese enormi al cospetto del mondo; per noi che dobbiamo pur conservare

nascosti da qualche parte nei nostri cromosomi i ricettori del grande

Melos; per noi è questo il modo di cantare che più di tutti dovrebbe

rappresentare lo scatenamento dell'emozione, il risveglio di Dioniso,

l'incanto davanti all'antico canto dell'uomo.

            Davanti a quel disco che gira, ogni volta, ancora una volta,

ci accorgiamo che con Tito Schipa non siamo solo all'ascolto di un grande

cantante, ma di quella che sappiamo dovrebbe essere, per noi, la voce

dell'uomo che canta. Stiamo ascoltando, semplicemente, il miracolo della

voce. La nostra voce.